Frontiere di Dio

Frontiere di Dio

Inquietudini per il cammino nell’anno pastorale 2018-2019

Domenica 7 ottobre, giorno in cui abbiamo celebrato la festa patronale in onore di sant’Anselmo da Baggio, la liturgia ci ha proposto il brano evangelico di Matteo che narra la chiamata a lavorare nella vigna a tutte le ore del giorno, anche all’undicesima (Mt 20,1-16).

Quella pagina evangelica ci parla di lavoro e, quindi, dobbiamo fare riferimento a questa esperienza, che è poi l’esperienza di ciascuno di noi. Il vangelo, lo sappiamo, ci parla della nostra vita normale, quotidiana.

Il mondo del lavoro a cui fa riferimento quella pagina è il mondo di una volta: c’è un padrone che esce all’alba per assoldare operai per la propria vigna.

Li trova, fa un regolare contratto, regolare almeno per l’epoca, e poi li manda a lavorare.

Poi, evidentemente, si accorge che il lavoro è molto e che quegli operai non bastano, e così, alle nove del mattino, ne va a cercare altri.

Bisogna dire che è un padrone molto attento, perché a mezzogiorno e alle tre del pomeriggio va nuovamente a cercare operai. Evidentemente il lavoro è ancora molto, e lui ha fretta di finirlo. 

Alle cinque del pomeriggio è ancora lì a cercare altri operai.

Ne assume di nuovi, anche se ormai la giornata lavorativa sta per concludersi. Alle sei bisognerà dare la paga e mandare tutti a casa.

Sappiamo come va a finire la storia: tutti ricevono la stessa paga, senza distinzioni; eppure i primi hanno lavorato dodici ore e gli ultimi un’ora sola. 

È fin troppo evidente che quella pagina evangelica non ci parla di come organizzare il mondo del lavoro, perché organizzato in questo modo il mondo del lavoro sarebbe assolutamente ingiusto.

Il paradosso insito in quella pagina evangelica ci dice che quella pagina parla d’altro. 

Quel testo parla della misericordia di Dio, che è smisurata e non commisurata ai meriti umani.

Ma quella pagina, mi pare, ci dice anche altro. Ci dice qualcosa sulle comunità cristiane. Sulle parrocchie.

Le nostre parrocchie assomigliano alla vigna di cui ci parla il vangelo.

Ci sono alcuni che sono chiamati a lavorare fin dalla prima ora e altri che vengono chiamati all’ultima ora.

Tutti sappiamo cosa accade nei luoghi di lavoro. L’ultimo arrivato è sempre visto come un intruso, come un guastafeste. Quando non addirittura come un pericolo: mi porterà via il posto.

Accade così anche nelle nostre parrocchie. I nuovi arrivati hanno spesso l’impressione di essere considerati un fastidio, un pericolo per chi c’era già, per chi lavorava lì già da molto tempo.

Dobbiamo essere sinceri e riconoscere che spesso accade proprio così. Ci lamentiamo sempre che siamo in pochi, che siamo sempre gli stessi a lavorare, che anche altri dovrebbero impegnarsi poi, però, quando gli altri arrivano, li guardiamo con sospetto, perché noi siamo lì da prima e, quindi, abbiamo più diritti.

Perché questo accade?

A me sembra di aver individuato una risposta, ma non ve la dirò adesso. 

Adesso vorrei, invece, ritornare su quella pagina evangelica che, mi pare, ci dica anche un’altra cosa.

A ore diverse, ma tutti quelli che stanno in piazza, accolgono la chiamata a lavorare nella vigna.

C’è chi risponde prima e chi risponde dopo ma, alla fine, tutti lavorano. Immaginiamo il lavoro nella vigna: dissodare il terreno, potare le viti, raccogliere l’uva.

Il lavoro richiede tempo e fatica per ottenere il frutto sperato.

La Bibbia usa spesso anche un’altra immagine per dire la necessità del tempo e della fatica per ottenere il frutto sperato: l’immagine del cammino o del pellegrinaggio.

Il nostro Arcivescovo ha indicato nel cammino, nel pellegrinaggio l’immagine guida per la vita delle nostre comunità cristiane, delle nostre parrocchie.

Le nostre parrocchie, dice l’Arcivescovo, sono chiamate a essere comunità in cammino: «Essere pellegrini -scrive l’Arcivescovo nella sua lettera pastorale - ci permette di intercettare tutti coloro che anelano a una libertà autentica, ad un senso vero per la vita. Il desiderio di Dio sta all’origine di ogni autentico movimento di uscita da se stessi per andare verso il compimento, verso la gioia» (M. Delpini, Cresce lungo il cammino il suo vigore, pag.10).

Essere comunità che intercettano tutti coloro che anelano a una libertà autentica, ad un senso vero per la vita. Questo siamo chiamati a essere come comunità cristiana di sant’Anselmo.

Perché questo intercettare?

Non per imprigionare ma per offrire la possibilità di camminare insieme, affinché il cammino diventi più leggero, meno faticoso. Affinché si sperimenti la grazia che camminare verso la libertà, verso il senso pieno della vita, verso Dio, non consuma le nostre forze ma fa invece aumentare il nostro vigore e ci riempie di gioia.

Camminare insieme.

Il pellegrinaggio è proprio un’esperienza di cammino compiuto insieme.

Certamente voi ricordate la pagine dell’evangelista Luca che narra del pellegrinaggio della famiglia di Gesù a Gerusalemme. Maria e Giuseppe lasciano Gesù a Gerusalemme proprio perché lo creano nella carovana. Il pellegrinaggio è tipicamente un cammino compiuto insieme.

È un cammino verso una meta, tipicamente un luogo santo, un luogo che Dio ha segnato con la sua presenza. È, quindi, un cammino verso Dio.

La comunità cristiana è in mezzo agli uomini proprio perché a tutti sia possibile compiere questo pellegrinaggio verso Dio.

Il camminare insieme dovrebbe essere un aiuto nei momenti di fatica e di stanchezza.

Non sempre però è così.

A volte camminare insieme è una fatica.

Anche sant’Anselmo ha sperimentato questa fatica. Una fatica tanto grande che non ha più potuto sopportarla e ha dovuto lasciare Lucca e rifugiarsi nei pressi di Mantova, dove ha trovato nuovi fratelli con cui camminare insieme.

Anselmo trova nuovi fratelli.

Il pellegrinaggio ha, tra i propri frutti, anche questo: genera fraternità, genera fratelli. L’unicità della meta verso cui si è diretti, pur nella diversità dei cammini che si possono fare per raggiungerla, genera una comunione che supera le differenze. Tutti i pellegrini sono in cammino verso la stessa meta. Questo li rende fratelli.

Fratelli, non amici.

La distinzione è importante.

I fratelli si ricevono come un dono, mentre gli amici si scelgono.

I fratelli, invece, si ricevono, non si scelgono. I fratelli sono una chiamata , una vocazione, all’accoglienza, a fare spazio agli altri dentro di sé.

I fratelli non sono sempre simpatici; spesso sono pesanti. Ma sono i fratelli che ti sono stati dati. Sono il dono che ti è stato dato. Con loro sei chiamato a camminare, facendoti carico delle loro fatiche.

Mi pare di vedere che la nostra comunità cristiana, la nostra parrocchia, ha bisogno di crescere in questa consapevolezza di essere una comunità di fratelli.

Osservando le dinamiche al nostro interno, mi pare di vedere che spesso agiamo come un gruppo di amici, e non come una comunità di fratelli.

Questo ha pesanti ripercussioni sulla nostra fatica pastorale, perché un gruppo di amici rischia facilmente di non essere includente, di lasciare fuori quelli che non hanno affinità con noi, di respingere coloro che sono antipatici.

La fatica a lavorare insieme, che talvolta diventa addirittura incapacità di lavorare insieme, è chiaro sintomo  di questa carente comprensione fraterna della comunità cristiana.

Se mi impegno in parrocchia solo perché c’è qualcuno che è mio amico o che mi è simpatico o, al contrario, non do il mio aiuto perché ci sono persone che mi sono antipatiche o la pensano in maniera diversa da me, significa che non vivo la parrocchia con uno stile fraterno.

La fraternità è un legame che viene prima di noi, è un legame profondo e inscindibile, ma è un legame che lascia assoluta libertà. Nella famiglia ogni fratello prende la propria strada; si va anche lontanissimi ma si resta per sempre fratelli. E quando un fratello torna c’è sempre spazio per lui.

Il legame fraterno è quello che dobbiamo privilegiare tra noi.

Le relazioni amicali sono certamente più coinvolgenti, emotivamente più «calde», ma la relazione amicale da coltivare in parrocchia è solo quella con Gesù. Di lui siamo chiamati a essere amici. Tra noi siamo chiamati a essere fratelli. 

Sono intimamente persuaso che tanta fatica che stiamo affrontando a livello di partecipazione e di impegno in parrocchia nasca proprio da qui: abbiamo privilegiato il registro amicale rispetto a quello fraterno.

Abbiamo bisogno di raddrizzare la rotta.

Invito perciò tutta la parrocchia a camminare in questa direzione.

Il registro fraterno può sembrare qualcosa di meno rispetto all’amicizia, ma è un’impressione fallace.

Un gruppo di amici si interessa solo degli amici, può trascurare gli altri. Alla sua vita sono sufficienti solo gli amici.

Di un fratello, invece, non posso non occuparmi, perché c’è un legame tra noi. Per questo la comunità cristiana si preoccupa di tutti gli uomini: perché tutti gli uomini, nessuno escluso, ci sono fratelli.

Nessuno, quando varca la soglia della comunità cristiana, deve sentirsi estraneo.

È un compito enorme quello di edificare la comunità cristiana, proprio perché chiede questa apertura, questa capacità di accoglienza.

E la chiede sempre.

È facile, invece, che chi già da tempo abita la comunità, senza colpevole intenzione, perda di vista questa destinazione universale della comunità cristiana.

Rinnovo, dunque, l’invito a me stesso e a voi a vivere il nostro essere parrocchia, il nostro essere comunità cristiana, come comunità di fratelli in cammino.

Ogni uomo e ogni donna della nostra parrocchia sia per noi un fratello, una frontiera da attraversare per incontrare Dio.