Omelia nella settima domenica di Pasqua 2020, quando si riprendono le celebrazioni dopo la pandemia
Correva l’anno del Signore 2020, era il 23 febbraio. E’ stato quello l’ultimo giorno in cui si visti qui in chiesa per la celebrazione della Messa.
Era prima della grande paura, prima del grande disorientamento., prima del grande isolamento.
Sono passati solo tre mesi, eppure sembra un secolo fa.
Soprattutto, sembra una vita fa.
Una vita molto diversa da questa. In quella vita, quando venivi a Messa, ti fermavi a salutare le persone. La Messa, in qualche modo, era una sosta di riposo non solo spirituale, ma anche semplicemente umano: si facevano due chiacchiere; si usciva un po’ dall’isolamento, perché, anche prima del coronavirus, per molti la vita era comunque un isolamento: lontano dai familiari, dagli amici, dagli affetti, dalla vita frenetica della città.
Adesso è tutto diverso: non si può stare vicini, ti devi disinfettare appena varcata la soglia, devi nasconderti dietro una mascherina e, appena sarai uscito, qualcuno provvederà a disinfettare la panca dove ti sei seduto, perché, anche senza saperlo, tu potresti essere un pericoloso strumento di contagio.
Io vi confesso un certo disagio nel ritrovarci così, in una forma che contraddice ciò che stiamo celebrando: celebriamo la vicinanza con la lontananza, celebriamo la gioia della risurrezione ma viviamo ancora nella paura del virus. Soprattutto, mi crea disagio l’aver ricominciato a celebrare così, senza ricercare insieme i motivi per cui celebrare.
Ecco, mi sarebbe piaciuto, prima di tornare a celebrare insieme, avere il tempo di parlare con voi, per condividere ciò che abbiamo vissuto, nell’isolamento delle nostre case, in questi tre mesi. Così come fanno i due discepoli che si mettono in cammino verso Emmaus.
Mentre camminano si confidano il loro vissuto. Un vissuto tragico, come il nostro di questi tre mesi.
E il Risorto quando, non riconosciuto, si avvicina e comincia a caminare con loro, chiede loro di raccontargli che cosa li affligge, il loro sgomento, la loro sofferenza, la loro delusione. E solo dopo aver ascoltato, il Risorto comincia a evangelizzarli, parlando di sé, attraverso le Scritture.
E allora nasce nel cuore dei discepoli il desiderio che lui si fermi con loro. E, solo adesso, dopo aver ascoltato e dopo aver percorso le Scritture, il Risorto pone nuovamente il segno del pane spezzato e del vino versato, perché il pane spezzato e il vino versato sono alimento per la vita, ma se non condividi la vita, a cosa servono?
Noi oggi celebriamo così, ma ci manca un pezzo. Ci manca il condividere la vita.
A queste condizioni, la nostra celebrazione può diventare riconoscimento del Risorto?